Quella che segue è una specie di trascrizione che ho fatto a Reggio Emilia. Inutile dire che non sono uno stenografo professionista, quindi in alcuni punti ho dovuto semplificare, tagliare e modificare, cercando di stare dietro alla discussione e di rimanere il più possibile fedele all’originale. La qualità della trascrizione purtroppo cala col passare del tempo: dopo due ore e quaranta le dita cominciavano ad andare per conto loro.
Questo per dire che i pensieri qui espressi possono essere parzialmente o totalmente differenti dalle idee di chi li ha originati. E questo lo dico sia per i lettori, sia per i relatori, i quali sono caldamente invitati a dare una scorsa a questo documento e a mandarmi le opportune correzioni del caso.
Sono presenti:
Sono le 11:06, ci sediamo e aspettiamo che cominci l’ambaradan. Ho già icontrato Massimo Bernardi all’entrata, ha messo me e la Fede nei posti riservati in prima fila! Tombolini, Gambacorta, Langone e Ferretti sono già in postazione. Arriva anche Marchi, siamo pronti per andare!
Un po’ di trambusto e la sala si riempie: Massimo si aggira con fare dinoccolato. Tombolini si informa sullo stato del microfono e la Fede sleggiucchia la guida dei Giorni Balsamici. La stanza è stupenda: intorno al XIV secolo, questo era il «palazzo del capitano del popolo», e si vede. La bandiera italiana e quella europea sono davanti a noi, insieme ad una specie di ambone con il marchio dell’hotel Posta (il palazzo è locanda dal 1515).
Il silenzio cala su di noi, siamo quasi pronti a partire. Il fotografo sguaina la sua arma da guerra, Massimo fa accomodare un’altra persona in prima fila. Mi viene in mente che Raspelli l’ho visto in televisione la settimana scorsa, stava mostrando un castello qua in zona, con annessa cucina e cultura. Antonio accende il microfono, ci siamo!
[Fa gli onori di casa, ndr] L’incontro si inserisce nei Giorni Balsamici, alla IV edizione. Prova il microfono e introduce la manifestazione. Dobbiamo ricordarci di andare a Palazzo Allende dove c’è l’esposizione dell’aceto balsamico (ci sono i produttori che fanno assaggiare il prodotto). Si può vedere una mostra fotografica di Giuseppe Onorati che si è cimentato con i volti dell’aceto balsamico (Volti Balsamici). Stasera c’è la degustazione dei cocktail all’aceto balsamico tradizionale, attorno alle 18:00 ci sarà una valutazione di sette ricette messe a punto specificamente per queste occasione, tra le quali verrà scelta la ricetta migliore. La ricetta premiata sarà messa nella carta dei cocktail dell’Aris bar (?) di Venezia.
Antonio parla della definizione di «provocatore». Evita la presentazione degli ospiti perché sono noti nell’ambiente della gastronomia e hanno il nome sul cartellino davanti a loro.
Cominciamo da Carlo Ferretti, presidente del consorzio dell’Aceto Balsamico di Reggio Emilia. Domanda di Antonio:
Ferretti, vale la pena muovere tutta questa gente, istituzioni, giornalisti, stampa, opinione pubblica, ristoratori… per che cosa? Per un prodotto elitario, un prodotto che sembra essere per pochi, un prodotto che economicamente ha un significato relativo?
Ma certo! Il prodotto è poco conosiuto, la cente che non lo conose deve essere informata delle sue caratteristiche, perché sul mercato ci sono prodotti che hanno una denominazione simile, ma non sono parenti col nostro.
Il consumatore ha necessità di essere informato, se vedesse solo il prezzo non si renderebbe conto del valore del prodotto. Noi altri abbiamo il compito di informarlo e di dirgli che per poterlo ottenere ci vuole passione, lavoro, tempo.
Vediamo poi se è convincente, vero. Paolo Marchi dopo se ne va per andare allo stadio della Alpi di Torino (è interista): c’è ormai una tradizione consolidata che vede la figura del giornalista sportivo spesso coinvolta anche in maniera a volte prestigiosa nell’ambito del giornalismo eno-gastronomico. ci sono precedenti illustri di giornalisti sportivi che fanno anche eno-gastronomia. C’è affinità tra i due mestieri o è solo che sono molto in giro e già che ci sono i direttori gli chiedono anche di scrivere?
I direttori sono preoccupati dalla politica e basta, ma sorvoliamo.
Uno dell’economia aspetta i bollettini di borsa, uno di Milano vuole sapere della nebbia, il giornalista sportivo se vuole lavorare deve andare in montagna o negli stadi. Quando scende la notte o si fa l’amore o si mangia, lui preferisce mangiare. Girando si trovano altri appassionati, e dopo si comincia a conoscere i posti (subito i direttori non ti rimborsano il ristorante, allora deve inventare delle ballle «sono andato con quel giocatore»)
In Italia abbiamo il culto della mangiata, quanto è bello a tavola, quanto bello in TV. Seriamente non se ne parla.
Ne riparliamo anche dopo, sembra che ci siano segnali di ripresa. Tipo la rubrica Eat parade che Gambacorta cura da circa 6 anni per il TG2. Rubrica di gastronomia, non è stato facile inserirla in un TG. Nobilita la gastronomia o serve a rendere il telegiornale un rotocalco?
Tombolini si ricorda di aver visto una puntata di TG1 economia, con un certo atteggiamento visto che si trattava di TG, di Rai Uno e di economia, e il primo titolo era «grande successo del carciofo romano» (spaesato); esiste il rischio?
Gambacorta fa un po’ di storia: quando fu assunto in RAI nell’86, se ne parlava quelle due volte l’anno che c’era la mostra dei vini e c’erano un paio di colleghi sull’orlo della pensione che venivano mandati lì, due giorni di trasferta e se andava bene ci saltava anche fuori un servizio, altrimenti niente.
Soltanto negli anni successivi sono state scoperte anche dal punto di vista economico altre cose tipo Franciacorta. Altra data, 8 anni dopo, 1994. Era reduce da un periodo alla CNN per i campionati di calcio, collaborazione tra RAI e CNN, per una rubrica con pezzi fatti da giornalisti stranieri. Facevano uno speciale sul cibo e il tipo dice «come fate a non fare pezzi dall’italia!», chiama il suo collaboratore, gli propone Gualtiero Marchesi, il cuoco italiano più famoso del mondo. Fanno il servizio in Italiano, lo concludono e piace molto, propone al caporedattore di farne un pezzo per il TG regionale. Il caporedattore dice «ma sai, il tg regionale della lombardia, che c’entra gualtiero marchesi?» «Lasciamo perdere». Nel ‘94 un servizio su Marchesi con tutte le minchiate che andavano in onda era considerato superfluo.
Nel ‘96 cambia tutto. Il TG si apre improvvisamente a tutta una serie di contenuti che erano estranei alla logica di un telegiornale. Un po’ per le due rubriche, Salute e Costume e società, un po’ per distinguersi e per svecchiare, inseriscono la gastronomia. Bisognava trovare un’appiglio salutistico o economico, bisongnava inventarsi qualcosa, sdoganare la gastronomia.
Nel ‘98 ha seguito il Salone del Gusto, la sua era l’unica troupe di telegiornali che ha seguito tutto il Salone. Solo due anni dopo tutti i telegiornali (TG1, TG5, Cucuzza e tutti gli altri) avevano qualcosa dedicato alla gastronomia.
Al Salone del Gusto del 2000 c’erano ormai più troupe televisiva che espositori. Stavano tutti lì anche in assenza di vere e proprie notizie.
Sta diventando un po’ inflazionato, ripetitivo. Lui è critico con la limitazione di Eat Parade, che va nettamente distinta dal TG (domenica alle 18.30) Non è inserita nel telegiornale. Lui si occupa solo della rubrica.
Intanto il TG5 ha fatto Gusto, che non ha niente di giornalistico. Non c’è aggancio con le notizie di cronaca o con quello che avviene. Non parleranno dell’aceto balsamico perchè c’era la manifestazione. Ne parlano «così», la cosa finisce lì senza legame con territorio o cronaca. Non è stupito che il TG1 economia aprisse col carciofo, a questo punto sono notizie, perché non darle come tali? Che poi sia il carciofo fatto a Roma e il TG sia romanocentrico, questo è un altro paio di maniche.
Eat Parade è il programma meno laziale e meno romano-centrico della RAI.
Camillo Langone, se io non sono un lettore troppo distratto, è un cattolico che scrive di cose che hanno a che fare con la gastronomia. È un cattolico che non manca di prendere esplicita posizione contro tendenze «moderniste» rispetto alla ortodossia liturgica. La gola è un peccato, ed è un pecato perfino capitale (fa una faccia strana). Come concilia Langone con l’indulgere a questi aspetti, o fa parte con quella schiera di cattolici che sono abilisismi a costruirsi delle giustificazioni a queste cose? Domanda interessata (mi piace mangiare).
Non mi sono mai assolutamente preoccupato. Sono un formalista assoluto, voglio che la Messa sia fatta in un certo modo. Sui peccati capitali non mi ha mai turbato, soprattutto per la gola, sono un cattolico reazionario. Mi rifaccio ai grandi pornografi cattolici dell’aretino. Meglio fare e pentirsi che fare comunque. Io mi pento relativamente al fatto che dopo aver mangiato poi mi fa male la pancia o la testa, non ho questo tipo di problemi, il peccato di gola sarà stato fatto in epoche in cui non c’era cibo per tutti. Non mi sembra importante.
La rubrica che ha sul Foglio è una rubrica che non è di gola, ma dove tutti i peccati capitali vengono trattati.
Cerco di fare divagazione, la cucina il vino mi interessano fino lì, mi piace girare l’italia, mi piace raccontare, mi piace incontrare le persone (la provincia è l’unica parte buona della nazione, non a Milano o Roma).
Voglio essere un dilettante in questo e riallacciarmi ideologicamente a questi antichi scrittori, e ad alcuni scrittori tipo Mario Soldati, Gianni Brera, Paolo Manelli (di Fiorano), che scrivevano anche di cibo, cucina vino. Per me non capivano niente di cibo, ma ne scrivevano bene.
La gastronomia è sdoganata a sinistra e nel mondo cattolico. Raspelli è stato il primo a sdoganare nell’ambito della critica ufficiale la ristorazione minore (sulla Guida dell’Espresso), il primo a portare a dignità di guida importante ristoranti che facevano del loro territorio il loro cardine, il primo a cogliere con anticipo un trend che lui stesso ha contribuito a promuovere. La domanda è questa: non pensi che tu possa aver creato dei mostri? Non pensi che possa accadere o essere accaduto con un mezzo come la televisione? (Raspelli conduce la trasmissione Mela Verde su Rete 4). Nei produttori si innesca una sindrome da cenerentola, toccati dalla bacchetta magica di Raspelli smettono le vesti della quotidianità e si sentono piccoli principi alzando i prezzi?
Se ho avuto un merito è di aver scoperto, ideato, la critica gastronomica in senso letterario. Io facevo il cronista di nera, appassionato di gastronomia, recensivo l’unica guida che usciva (la Michelin) nel ‘78.
Promuoveva e raccontava anche gli esclusi. Questo è il suo più grande merito. Poi c’è Cesare Lanza che lo obbligò a parlare di ristoranti.
Facevo il cronista di nera, ho cominciato a raccontare di cose più che di gusti: il camerirere orgoglioso, quello che si tagliava le unghie, quello che era ansioso, con un giornalismo che scandalizzava.
Venne definito «il cronista dei cessi», perché era suo dovere andare a vedere ccom’era la pulizia. Non potendo andare in cucina, andava nei cessi. Lanza pretese di avere il ristorante cattivo della settimana. Metteva alla berlina una ristorazione che in Italia era assolutamente mediocre, nel 1975 si bevevano solo un bianco e un rosso veneto, quello stesso che trionfava sui vagoni ristoranti non esisteva una critica nel vero senso della parola.
La guida dell’Espresso: quando è nata, Federico D’Amato e io scrivevamo cose tipo «in questo ristorante neaenche i nostri cagnolini verrebbero a mangiare» (scritta da D’Amato). Siamo andati in tribunale 25 volte per queste recensioni cattive, ma abbiamo sempre vinto.
Prima che arrivassero le pressioni gastro-politiche, ha suggerito a quelli della guida dell’Espresso di guardarsi intorno: fare l’elenco dei posti che vendono trippa per strada, dei posti di Catania che facevano panini farciti, putiche (?) calabresi, recensioni gastronomiche dei mercati di Palermo. Ben precisa e iniziale verso queste categorie minori.
Non tutti possono permettersi sempre questo grande ristorante: la Ferrari è bella ma si usa anche la Duna a volte.
Il fatto di non scrivere sempre in modo positivo, ma di criticare anche ogni tanto il ristorante o l’albergo (per gli alberghi, ho inventato io le recensioni), aumentava ancora di più la valenza positiva di quelli «incensati». Quindi la trasformazione «pericolo» della aggiunta di boria o di zeri in certi menù. Oggi in particolare, è un caso comune che con l’euro i menu siano inflazionati incredibilmente (tra il 40 e l’80%, nei ristoranti).
Del resto ricordiamoci di una cosa, andare al ristorante non ce l’ha ordinato nessuno, prendere un prodotto di artigianato non ce lo ordina nesuno, accettiamo di mangiare meno ma meglio, bere meno ma meglio e condire o di chiudere un pranzo con prodotti che costano di più ma che non hanno nulla da spartire con altri che hanno parte del nome comune ma sono tutt’altro.
La Ferrari Testarossa e la Ferrari Duna (anche se qualcuno vorrebbe che fossero entrambe chiamate «Ferrari») sono due cose diverse.
Torniamo sull’aceto balsamico tradizionale. Come tutti sapete «soffre» di questa situazione problematica, che provo a descrivere in modo oggettivo e avalutativo. Descrivo la situazione poi chiedo un giro di tavolo ai relatori che dicano la loro sulla situaizone, come uscirne o lasciare le cose così.
La situazione è così: è caro, costa un sacco di soldi. Riferimento: da un minimo di 45-50€ ad un massimo che non esiste, ma che supera tranquillamente i 100€ senz’altro. L’unità di musura è minima (le boccette sono da 10cl), tanto che si serve a gocce. 10cl di questa cosa hanno un prezzo di quel tipo.
Prodotto molto caro. Prodotto molto buono. Per me il test oggettivo: quando lo dò ai miei figli, gli davo un cucchiaino di aceto e ne volevano un’altro.
Aceto balsamico tradizionale? No, due prodotti. Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia, e Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. Due consorzi, due confezioni diverse, due manifestazioni diverse, due tutto.
L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, ha accanto un prodotto che è tutt’altra cosa, ed è l’Aceto Balsamico. Senza Aggettivi. Situazione che crea oggettivamente nel consumatore una situazione di confusione, non fosse altro perché il prezzo di questo secondo prodotto è drammaticamente più basso. Bottiglie da mezzo litro che costano da un minimo attorno ai 2 o 3 €, fino a un massimo che arriva circa ad una buona bottiglia di vino.
Tanto che questo si traduce in termini di mercato in problemi seri per chi ci lavora. Ho venduto via web l’Aceto Balsamico Tradizonale in Belgio, poi mi arriva una lettera raccomandata da uno studio legale: mi hai mandato una cosa di 10cl che costa non so quanti euro, non è possibile! (e tra l’altro si sa che su internet sono tutti pedofili, farabutti...). Vagli a spiegare al belga la storietta, lui aveva le foto di non so quali bottiglie non so dove con tutt’altro prezzo.
Questo è il coacervo di situazioni in cui si trova il prodotto più eccellente della gastronomia italiana.
Langone, la lasciamo così, che facciamo?
Io non farei assolutamente niente [Lo supponevo, dice Tombolini]. Quando si dice che l’aceto è caro, io rispondo che non l’ho mai pagato, in fondo alla sala ci sono persone che me ne fanno omaggio. A me piace che l’aceto sia qualcosa di esoterico, non economico. Legato al dono, al regalo. Legato a questa città che non ha tradizioni, non è mai stata capitale. Il Parmigiano Reggiano è di Parma, il (?!?) di Canossa (Modena), almeno che rimanga l’aceto.
Reggio deve starsene di sotto in senso di fatturati, di notorietà, il più possibile nascosta in questo senso. Non è un prodotto, è un rito, è una tradizione. Se diventa prodotto entra a far parte di una logica economica coi suoi cicli: i prodotti nascono, muoiono, invecchiano… dopo un millennio di storia, teniamolo così com’è.
Senza contare che la lotta sarebbe durissima contro l’aceto di Modena.
Non è una cosa, è un romanzo (Aceto Balsamico di Reggio Emilia, nome troppo lungo). La Cina è il più grosso produttore di Birra al mondo. Quando un prodotto diventa interessante lo fanno fare in Cina, poi vai a spiegare che non è tradizionale, che è Cirio o Ponti.
Se si volesse fare una operazione commerciale (speriamo di no), cambiamo il nome. È incomunicabile, dovrebbe chiamarsi Aceto qualcos’altro, Aceto Magico, chessò. Catastrofico.
Quindi, per me il problema è irrisolvibile se viene trattato come un problema, altrimenti se lo vediamo come tradizione, persone, famiglie, cifre intorno ai 10 milioni, conoscenza, amore, passione, tempo, che bello che Reggio ha questa opportunità di diffondere sempre di più nel mondo, ma la cultura, la tradizione, la cultura dell’acetaia nella tradizione Reggiana.
Langone resistenza su tutta la linea: l’aceto è un rito, non ha a che fare col mercato, se è un prodotto allora rivoluzione.
Bruno, come la vedi su questo?
Io fare un esempio: pensate al problema del Vin Santo. Andate in giro per l’Italia e vi portano sn giro questa confezione insopportabile di cantuccini e Vin Santo. Può andare da acqua colorata a vino vero con caratteristiche DOC, poi c’è l’Occhio di Pernice che è come l’Aceto Balsamico Tradizionale. Differenza di prezzo, differenza di gusto. È completamente diverso, come la Duna e la Ferrari.
Penso che il produttore avignonese che fa l’occhio di pernice non si preoccupi di questo, non c’è il problema di differenziarsi agli occhi del consumatore. Il prodotto è poco, si vende tranquillamente, se anche c’è confusione sul mercato ognuno c’ha la sua fetta e non c’è confusione.
L’oliva ascolana di Ascoli piceno sta per avere la DOP (origina protetta), mentre i produttori dell’oliva farcita fritta si fanno l’OGP. Anche lì come si fa? Questo mi fattura 5 miliari, questo mi fattura 500. Se riusciamo ad avere l’OGP anche per la oliva fritta alla fine si crea occupazione e non fa così male: Ascoli Piceno è bella, si porta turismo, diventa un volano per un territorio, a quel punto dell’oliva fritta o farcita non frega più a nessuno.
Se poi riusciamo anche a disciplinare il tipo di farcia che ci si mette dentro, e si stabilisce che non ci si possano mettere gli scarti di lavorazone di tutto è anche un passo avanti. E allora mi sta bene, anche per il prodotto meno pregiato. Se il disciplinare sarà meno serio ben venga l’OGP del balsamico.
Perché andarsi a complicare la vita creando aree di conflitto? In questo modo però io consumatore appassionato sono il pirla della situazione: io morirò senza conoscere la differenza tra Duna e Ferrari.
Parliamo di vino. Barolo e Barbaresco, si fanno con la stessa uva. Il prodotto è simile, nessuno si sognerebbe di cambiare la parola per descrivere il vino. Sono vini che si pososno fare in quei comuni e basta.
Il conflitto nominale tra Reggio Emilia e Modena non esiste. Sono due grandi prodotti con una grande immagine, forse Reggio ne ha un po’ meno in questo momento, ma passerà. No invidie, ma alleanze tra piccoli produttori per fare cose comuni, schiette, di grande immagine. A Reggio e Modena ci devono essere dei Davide della gastronomia che fanno due cose diverse.
Bottigliette diverse: sono uguali ma sono diverse, avete due nomi con contenitori simili, teneteli stretti. Il pericolo comune è quello di essere schiacciato dalla grande distribuzione, dalla pubblicità, dalla censura dell pubblicità sui giornali e sui giornalisti.
Oramai di certi aceti tradizionali o industriali non si può opiù parlare. Il peso delle lobby gastro-politiche, il consumatore ce l’ha nel picio!
In questo territorio di Reggio o di Modena si prendono dei vigneti locali, 300kg di uva durante la vendemmia, uve bianche; si pigiano; questi 300kg di uva danno 100kg di mosto, vengono fatti cuocere a fuoco vivo per 24 ore, senza nessuna aggiunta. In 24 ore diventano 50 litri di mosto cotto senza aggiunta, di 300 kg di uva. Vengono messe in bitticelle piccole nel caldo delle soffitte (non in cantina) con botti aperte, per far concentrare il liquido.
Dopo 10 anni, 20 anni la quantità si riduce in modo drammatico.
Dopo 25 anni ci sono 2,5 litri, partendo da 300kg di uva.
Lo stoccaggio non viene fatto da industriali che hanno miliardi, ma da famiglie tradizionali di qua. È chiaro che poi c’è questo prezzo, non c’è una aggiunta.
L’Aceto Balsamico Tradizionale è un condimento per legge.
L’aceto balsamico, che per Modena ha la sfortuna che si chiami di Modena (non tradizionale), è tutt’altra cosa. Come si fa? È un aceto, non è un condimento (per legge). Se aprite la bottiglia e leggete l’etichetta, in primis c’è aceto. non si dice di che cosa, può essere fatto anche non col vino. Poi c’è aceto invecchiato. La legge non specifica quanto ce ne sia, poi ci si possono aggiungere delle cose che non fanno male, sono onestissime, ci si può aggiungere caramello per addensarlo, acqua se è troppo scuro e via.
Che c’entra con l’altro allora? La legge europea dall’Aprile del 2005 avrebbe fatto piazza pulita. La parola «balsamico» deve essere assolutamente legata al balsamico tradizionale.
Ovviamente ci sono problemi economici. Il fatturato del tradizionale è 100, 200 volte meno dell’industria. Posti di lavoro, per un acetificio bastano 5 persone. Non vorrei che si ripetesse in piccolo la rivoluzione industriale. Non credo che si debba sacrificare due prodotti così grandi per questo problema. Non dico di vietare l’aceto balsamico (quell’altra cosa), ma è una cosa assolutamente diversa che usurpa la parola «balsamico». Non essendoci nessuna legge che regola le quantità degli ingredienti non si capisce perché si chiami balsamico.
Faccio un esempio, questo aceto [estrae una bottiglia, ndr] è invecchiato e raffinato in 25 anni old, botti di eccellente qualità di. Botti di legni pregiati. L’etichetta ti dice che quello che c’è lì dentro è stato invecchiato in botti che hanno più di 25 anni. Ma le botti, non quello che c’è dentro.
[Raspelli muove la bottiglia, si muove tutto dentro, ndr] Il problema è la confusione. Quanto è stato invechiato, come è stato invecchiato… Si vede che è legale, ma io da consumatore rispondo a Tombolini: sì, noi conmsumatori stiamo per essere danneggiati. Il fatto stesso che qualcuno abbia chiesto la abolizione della esclusiva della bottiglietta di Giugiaro per l’Aceto Balsamico Tradizionale (quello che esce dalla strada Vaciglio), è un primo passo per aumentare la confusione.
Quando quel contenitore non sarà più distintivo di aceto, la stessa cosa succederà per Reggio Emilia. Dopo non ci sarà più modo di distinguerlo se non per il prezzo, e dopo ti arriverà la raccomandata dagli USA di chi si lamenta per i prezzi.
Si sta celebrando il funerale dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. Ai consorzi, a Reggio Emilia, l’impegno di salvare sè stessi.
Paolo Marchi, facciamo una simulazione. Esautoriamo gli assessori qui presenti, Paolo diventa assessore alla agricoltura. Arrivano da te tre delegazioni. La prima è la delegazione del consorzio dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena a perorare la causa di un prodotto che soffre di quello che ha detto Raspelli, e di una confusione sul mercato.
La seconda delegazione è quella dell’aceto balsamico di Modena. «Se non si prendono provvedimenti l’Europa nel 2005 ci toglierà la parola balsamico», dicono.
La terza è l’associazione x dei gastrofili che chiede: «non ci capiamo neinte, è un casino, delle sorti economiche non c’interessa, vogliamo sapere le cose come stanno».
Che fai?
Non lo so: in Italia non abbiamo mai difeso i nostri prodotti. Quando ero piccolo andavo in vacanza in Liguria: mangiavo il pesto e non lo trovavo a Milano, così come la mozzarella di bufala. Solo che non sono fatte più come prima, qualcosa balla per gli ingredienti.
Non abbiamo mai difeso Pugne dell’Overda (?!?)
Se devo scrivere di Parmigiano non so con chi parlare. Quando scoopriamo che una cosa è buona la facciamo a bassa qualità. Gli industriali dell’aceto hanno tutto l’interesse a proteggere il proprio prodoto. Sull’alimentare le associazioni sono le prime a non difendere i loro prodotti.
A Modena non c’era il poroblema di balsamico e tradizionale. Ce l’hanno messo perché ce n’era così poco.
L’industria dovrebbe dire: questo è quello buono, ne facciamo uno meno buono e questo è il prezzo.
Mi sono documentato [tira fuori bottiglie di aceto, ndr].
White balsamic made in Florida, con la foto dei lamponi. Aceto della california e costa 6 dollari e 99. California balsamic vinegar, in versione bianca. Paul newman, che fa il suo balsamic vinagret (sembra olio).
«Nel 1602 a Modena c’erano due rampolli della famiglia dei Vinegar, uno si chiamava Balsa e l’altro Mick. Per un insulto fanno un duello tra loro e muoiono entrambi, così la loro mamma pigia delle nuove uve dalla sua vigna e le chiama balsa-mic».
Ci fottono tutto! Da Pizza Hut c’è la pizza che gli americani credono sia pizza, non la vera pizza. Compromettono i gusti della gente.
Al di là di questo vengono fuori due linee: una interventista e una più realista. Lasciamo al presidente Ferretti spiegare quale sia la linea del consorzio di Reggio Emilia, ma solo dopo che da parte della sala ci sia una interlocuzione con gli amici che ci sono al tavolo.
Volevo dire che come ragazzo del Monti [istituto alberghiero che ha dato una mano a organizzare i Giorni Balsamici, puntualizza Tombolini, ndr], il prezzo dell’aceto secondo me è giusto perché studiano il lavoro che c’è dietro è giusto. Se noi come scuola alberghiera possiamo dare una mano a diffonderlo.
Rappresenta i produttori dell’aceto balsamico di Modena (e fa il tradizionale in casa).
Ci sono degli sbagli di fondo: aceto balsamico non esiste, è vietato produrlo in italia e all’estero. Purtroppo i campioni che avete visto, sono prodotti negli Stati Uniti, non c’è scritto in nessuno di essi di Modena. Abbiamo un problema enorme, di cui volevo parlare.
L’altra cosa sbagliata è la lista degli ingredienti dell’aceto balsamico di Modena. L’Aceto Trazionale di Modena è DOP, l’Aceto Tradizionale di Reggio Emilia è DOP, poi c’è un aceto balsamico (che ha vinto una sentenza a Napoli). Il caramello solo al 2%. c’è una legge.
Un barolo normale costa 40€, ne ha comprato uno per 299€. Aceto balsamico di Modena da 250cc.
Tutto ciò dispiace notare che c’è una tendenza a fare delle disquisizioni in un settore fortissimo. Siamo gli unici che producono 40 milioni di litri di aceto su 150 milioni di litri dell’intera europa. Situazione simile allo champagne. L’aceto balsamico è una cosa seria, specificata nei dettagli (quanto mosto, quanta uva).
Faccio il consumatore sprovveduto: le posizioni diventano, da un lato «siamo di fronte a due prodotti radicalmente diversi, chiamarli con nomi simili è sbagliato»; dall’altra «siamo di fronte a prodotti non radicalmente diversi, si tratta di graduazioni diverse di tipicità che vanno dall’aceto balsamico di Modena fino all’eccellenza dell’aceto balsamico tradizionale». Ancora in sala.
Ritengo fondamentale che abbiamo persone di comunnicazione. È vero che l’aceto balsamico normale potrebbe avere dignità se non volesse vendersi spacciandosi per qualcos’altro. Ciò che non fanno loro e non hanno mai fatto a sufficienza (i comunicatori) è che non dovremmo più aver nessuno che dice questo prodotto è caro, perché se impariamo a comunicare il fatto che il prodotto ha una qualità e una storia, il prodotto non è più caro, ma acquisisce il suo status. I comunicatori dovrebbero elevare la percezione di qualità dell’aceto balsamico tradizionale.
Vuole essere sicuro di quello che consuma, così se lo fa in casa. Tutela e promozione di un prodotto, che avviene con manifestazioni come queste, ma soprattutto con un rapporto di chiarezza continua col consumatore. La individuazione di dati oggettivi che lo rendono così particolare: non si può prescindere dalla presenza di dati oggettivi.
Perché è così buono? Perché è così particolare? La ricerca come tutela e come promozione. Perché l’aceto balsamico di Modena è in crisi? Perché ha ignorato in passato gli investimenti in ricerca. Non ha dati oggettivi su cui dimostrare la forte peculiarità dell’aceto balsamico.
Il presidente dell’accademia italiana dell’aceto balsamico tradizionale. Tutti gli aceti ottenuti per via naturale, che partono dal mosto dell’uva. Modena e Reggio Emilia sono ben consci del patrimonio immemorabile (si parla di antichi romani). Sia Modena che Reggio Emilia nella passione per l’aceto balsamico tradizionale stanno portando avanti una lotta comune proprio per difendere sia l’aceto balsamico tradizionale che quello non tradizionale. Uno è l’uso comune e l’altro per i ricchi. Questa campagna che stanno portando avanti col prof. Cantarelli dell’Università di Parma: Modena acetaia d’italia. Non è vero che c’è poca chiarezza tra questi due prodotti, lo fanno da due anni con normative ben precise per cui l’aceto tradizionale e hanno legislativamente caratteristiche diverse. Una delle cose che diciamo è che quando si trova sulla confezione un riferimento di date sull’invecchiamento, quello non è un prodotto serio.
Una cosa mi permetto di fare, è un invito che faccio a tutti. Non neghiamo l’evidenza dei fatti: è vero che se andiamo ad esaminare da esperti, addetti ai lavori esistono le differenze e le legislazioni. Ma il consumatore ha in testa confusione su questi due prodotti. È un dato di fatto innegabile. Detto questo parla Edoardo.
Questo è un grande paese che cerca solo di distruggersi: parliamo di Mozzarella. Grande formaggio fatto in italia, con due latti diversi. Uno di vacca e uno di bufala. Perché la legge non ha imposto che il formaggio filante di vacca sia chiamato «fiordilatte» e quell’altro di bufala «mozzarella»?
Il consumatore davanti ha la «mozzarella di bufala campana» e la «mozzarella di bufala non campana», fatta ovunque ci siano le bufale. Cosa distingue un prodotto dall’altro? L’immagine dell’animale, e spero di non confondermi io che ci lavoro con queste cose. La testa di bufala rappresenta la mozzarella campana, tutta la bufala la mozzarella non campana. Confusione pazzesca.
Culatello di Zibello, c’è un consorzio europeo DOP, bandiera arancione e bianca, tredici produttori che macellano ciascino 300 maiali l’uno. Nella zona ci sono degli altri che fanno il culatello di zibello che arriva sulle tavole della COOP (siamo tutti noi, poi!). D’accordo che bisogna vedere e guadagnarci, ma bisogna fare chiarezza. Ma non possiamo dirlo! In questo paese non si possono dire certe cose in televisione, non si possono dire cose sui giornali.
Nella grande industria dell’aceto, i produttori si sono covnertiti recentemente alla nicchia, al tradizionale. È stata chiesta l’abolizione dei simboli come la bottiglietta di Giugiaro.
Non sta dicendo la verità!
Termino: l’importante è che il consumatore non capisce più niente! Fino a quattro anni fa un grandissimo ristoratore italiano ha saputo da me la differenza tra tradizionale e balsamico di Modena. Poi lo sappiamo che i condimenti sono buonissimi e le etichette sono corrette, a differenza delle truffe di prima, ma è la confusione che va eliminata. Quando vado a comprare la macchina voglio sapere cos’è quella macchina: deve esserci scritta la targa, l’etichetta.
Volete differenziare la vostra produzione? OK, ma io devo sapere che uno è un panino McDonald’s e l’altro no.
Cosa si può scrivere cosa non si può scrivere?
Quasi niente, perché con qualche querela verrei cacciato o tacitato. Sul Foglio c’è Ferrara che mi copie ampiamente. Il mio caso del bolognese, sono andato in un ristorante romano per i VIP, che ha reagito malissimo, so per certo che tantissimi altri ristoratori mandano letteracce, minacciano querele che poi per fortuna non fanno, e tu per amore di quieto vivere lasci perdere.
La guida dell’Espresso da quando Raspelli è adato via, adesso si mangia bene dappertutto e tutti sono trattati bene. Il problema è che di aceto si potrebbe tentare ma mi sembra di capire che sia una giungla inestirpabile: caso disperato.
Il Barolo è un caso diverso, differisce tre o quattro volte il prezzo ma non la qualità. Sarebbe più giusto fare il rapporto col Chianti, vino in grandissima crisi. Il Chianti va malissimo come immagine. Bisogna evitare tutto ciò ed eliminare una possibilità di convivenza tra tutte queste forme sterminate di aceto. Non può andare avanti.
Langone sembra che ritratti il paragone Fiat-Ferrari: aggiungo anche che va bene dal lato Ferrari, non mi pare che abbia funzionato dal lato Fiat. Bruno, comunicatore televisivo, la televisione generalista, di massa, come te la caveresti nel dover comunicare l’oggetto di oggi in termini televisivi?
Fin’ora abbiamo sempre parlato di tradizionale. Abbiamo spiegato cos’era al napoletano, al siciliano che non ha mai visto la boccettina. Da questa mattinata io tenterò di spiegare questa differenziazione di nomi, anche se non sarei così catastrofista. Sappiamo tutti a memoria le tariffe dei cellulari, nessuno di noi vuole perdere cinque minuti per sapere quello che mangia.
Seconda cosa: è chiaro che c’è una cultura legata al territorio (a Napoli non sapevamo cosa fosse l’aceto balsamico tradizionale). Mozzarella non lo puoi mettere sotto chiave: il produttore di Mondragone che non aderisce al consorzio, come fai? Non puoi impedirgli di usare un termine diffuso da centinaia di anni. La gente però lo sa: nessuno pensa di comprare a 12 euro una mozzarella di primissima qualità. Il problema è che bisognerebbbe evitare che dati 8 litri si faccia il doppio di aceto. Se compro DOP voglio che sia garantito. Le cose si autoregolano, la differenza di prezzo fa sì che la confusione si autoregoli.
A Milano negli anni ‘50 non sapevano cosa fosse l’olio extravergine, usavano solo burro. È la globalizzazione strisciante che crea questo. Non crediamo che certi usi siano ancestrali: certe cose sono relativamente recenti.
Caro consumatore, quando compri un’automobile ti compri le riviste, leggi e ti informi, quando compri da mangiare le prendi un po’ così. È un problema di cultura. Paolo Marchi: l’Aceto Balsamico Tradizionale va inteso come punta di eccellenza di un prodotto che alla fine è quello, ovvero l’aceto balsamico, o sono due cose completamente diverse?
È chiaro che sono diverse: il punto di base è che l’oste che annaqua il vino c’è sempre stato. La confusione giova a chi fa il balsamico, non a chi fa il tradizionale. Viaggiate su un confine come i produttori di olio extravergine. L’olio Castrol costa di più dell’olio extravergine di oliva che trovo all’Esselunga o all’Autogrill. Purtroppo noi italiani tiriamo via su tutto: a Parma una volta hanno chiamato un cuoco e un giornalista chiedendo come erano entrati in contatto con materiale di Parma. Per i Francesi ci sono ricerche dicono che il sale normanno è meglio. Se vai in Spagna, hanno ettari per fare tot prosciutti di qualità.
Gli italiani cercano sempre di vendere una qualità bassa. ma bisogna differenziare, altrimenti uno pensa che certi oli che vedi in TV con un giapponese che parla italiano siano di alta qualità, ma poi non possiamo sorprenderci se la gente si incazza se sente il balsamico.
Presidente del consorzio dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena.
Ho promosso io la causa sulla bottiglia. È una forma che è stata fatta studiare dalla camera di commercio di Modena perché fosse la bottiglia di tutti. Cambiato presidente ci siamo visti espulsi dal consorzio perché in una assemblea abbiamo Espresso un parere contrario al presidente, ovvero di non fare causa al ministero dell’agricoltura forense). A quel punto il consorzio non era più il nostro.
Siamo usciti e avbbiamo fatto un consorzio per conto nostro, abbiamo continuato a produrre come prima. Lo abbiamo continuato a imbottigliare come prima fino a quando i NAS hanno sequestrato quasi tutta la produzione dell’anno scorso.
È stato poi dissequestrato. Il motivo del sequestro era la tutela del consumatore.
[Tombolini interrompe Giacobazzi perché il tempo stringe, Giacobazzi vorrebbe elaborare ulteriormente le sue idee ma Tombolini vuole passare la parola al presidente Ferretti prima della conclusione dell’incontro. Tombolini riassume velocemente quella che ritiene sia la posizione di Giacobazzi che nel frattempo sembra essersi un po’ spazientito, ndr].
Presidente Ferretti: quale ruolo può assumere il consorzio dei produttori di Reggio Emilia?
Il «non è vero» di Giacobazzi era relativo alla richiesto di abolizione della bottiglietta di Modena. Un consorzio se n’è appropriato: dato che tutti i produttori hanno diritti di usarla, col provvedimento del consorzio di Modena non sarebbe stato più possibile.
Noi ci siamo impegnati per fare quella cultura che manca, ed è inutile che continuiamo ad accusare una parte o l’altra. Abbiamo necessità di far conoscere le caratteristiche del nostro prodotto: per quanto ci riguarda l’aceto balsamico è un prodotto che non ci riguarda, è un’altra cosa. A noi interessa il tradizionale.
Relativamente alla regolamentazione vigente, è carente. Cosa possiamo fare? Avvalerci dei mass media, ovvero di coloro che possono dare le informazioni perché ne diano di corrette. Se salta fuori che non si possono dire certe cose non si può fare chiarezza.
Raspelli non puo' venirci a dire «non si può dire», dovrebbe dire, lui! E probabilmente anche Langone, anche se condivido di più la sua posizione.
Relativamente all’immagine, che l’aceto di Modena sia più conosciuto di quello di Reggio Emilia. Il nostro prodotto è costoso, ovvero ha certi costi per una lavorazione lunghissima, ovvio. Noi altri siamo soliti dire che un boccettino da 100ml (cultura), una persona lo consuma in 4 o 5 mesi. Io dico che non è costoso: ovvero lo è, ma va contestualizzato.
La cosa più importante è l’acculturamento.
E in conclusione aggiungerei che il parmigiano per me è Reggiano Parmigiano.
L’assessore ?!? ci ha dato una mano con luoghi, mezzi. Ci sembra giusto che sia lui quindi a concludere questo incontro.
Vorrei portare un elemento di chiarezza. Unito al nome di Reggio Emilia c’è solo l’Aceto Balsamico tradizionale. Punto e a capo.
Il lavoro che si è cominciato, è che vogliamo che il prodotto sia riconosciuto come prodotto di qualità e legato al territorio. Creino un rapporto di cultura col territorio dal quale il prodotto proviene.
La nostra convinzione è che la qualità sia l’unica strada verso cui andare. Nella «confusione» di Modena, noi non vogliamo entrare. Se si riuscirà a far sparire «balsamico di Modena» nel 2005 sarò contento, perché forse riusciremo a fare chiarezza.
[Rivolto ai giornalisti, ndr] Sul tema della cultura e dell’alimentazione avete un ruolo fondamentale. Non è possibile che la cultura sia che io mi preoccupo di quello che porto fuori ma non di quello che metto dentro al mio corpo.
Il valore di capire un animale chi è, cosa mangia, da dove viene, dove pascola cosa fa è fondamentale per qualsiasi prodotto. Questo è il messaggio che vogliamo portare.
Non è un problema di censurarci o meno, per il presidente del consorzio. Il problema è che da qualche anno anche chi fa prodotti di massa vuole spacciarli per gola. In Italia il problema è che il giornalista non parla di una cosa perché dovrebbe scrivere in un modo che non è più sincero. Se scrive che il prosecco non è champagne ci sono centinaia di consorzi che minacciano querele. Il problema è che chi produce si può spacciare con qualcosa che non è.
Sto già finendo le batterie, dopo due ore e quaranta (dannata Apple, dovrebbero durare quattro ore!). Mentre c’è un po’ di calca tra gente che tenta di uscire, altra che si ferma a fare quattro chiacchiere con Antonio Tombolini, altra che si fa intervistare da Telereggio (un’emittente locale) come Gambacorta, mi accorgo che in sala c’è anche Cino Tortorella, tra le altre cose anche ex-mago Zurlì.
That’s all, folks!
—Antonio Cavedoni, 28/11/2003
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